Risse, assembramenti e la minaccia di nuove restrizioni: ecco come è andato il primo week end di libertà
Ad appena 10 giorni dall’inizio della tanto agognata fase 2, sebbene la riduzione dei contagi continui e faccia ben sperare, ci tocca dar ragione a quanti temevano che la riapertura di locali e ristoranti al pubblico si sarebbe repentinamente tramutata in un “tana libera tutti” fuori controllo. Tra piazze gremite come per la festa del santo patrono, sporcizia e resti di bivacchi lungo le strade, risse tra adolescenti incattiviti dal lungo lockdown, gli italiani si scoprono in precario equilibrio tra la voglia di riprendere le vecchie e tanto rimpiante abitudini goderecce e la paura di veder risalire vorticosamente il numero dei positivi al virus. C’è chi giustifica i recenti assembramenti con l’innata propensione dell’italiano medio alla convivialità, chi minimizza i rischi ad essi legati con uno sbrigativo “so’ ragazzi”, chi punta il dito contro amministrazioni poco previdenti e fin troppo accondiscendenti. La verità, come quasi sempre accade d’altronde, è probabilmente nel mezzo: pretendere che migliaia di persone reduci da due lunghi mesi di isolamento imposto e con l’estate alle porte, riuscissero autonomamente ad autoregolamentarsi, a rinunciare al proprio piacere individuale in nome di un ideale della collettività per cui, diciamocelo francamente, l’essere umano non è mai stato particolarmente portato, come secoli di storia ci insegnano, era una prospettiva più utopica che ottimista.
Le varie amministrazioni regionali e comunali avrebbero dovuto preventivare l’eventualità di un rigettarsi affannoso di fiumane di gente sui tavolini delle miriadi di locali che pullulano i nostri borghi, attrezzarsi fin da subito per contingentare gli ingressi, piuttosto che trovarsi in ritardo a cercar di rammendar gli strappi con toppe improvvisate e ben poco resistenti, come in ultimo l’idea di istituire gruppi di volontari abilitati a coadiuvare le forze dell’ordine nel reprimere episodi come quelli degli ultimi week end. È pur vero che dai nostri salotti o durante le nostre chiacchierate coi colleghi accanto alla macchinetta del caffè siam tutti bravi a metterci nei panni di sindaci, governatori e legislatori, a prodigarci in “io avrei fatto”, “io avrei detto”, ma è probabilmente questo il punto focale del discorso. Il mestiere della politica, o l’arte dell’amministrare la “cosa pubblica”, come si ostinano a definirla gli ultimi sognatori, se realmente “sentito”, è labirintico, ostico, è una grana più che un privilegio. Dovrebbe essere lo stoico immolarsi del singolo in nome della comunità, se il retaggio della filosofia greco-Latina di cui tanto ostentiamo l’eredità, fosse in noi realmente presente. Eppure ad oggi, a voler essere realistici più che disillusi, la gestione dell’emergenza e delle sue fasi successive da parte di chi si fregia di rappresentarci, non appare poi tanto più organizzata e competente delle ipotesi buttate lì dai legislatori della domenica al bar dello sport.